Fuori fuoco
eVisioni 2018. Fuori fuoco, un docufilm sul carcere di massima sicurezza di Terni
Un docufilm di Erminio Colanero, Rosario Danise, Thomas Fischer, Rachid Benbrik, Alessandro Riccardi, Slimane Tali
Per la prima volta in Italia, nel carcere di massima sicurezza di Terni (100 km a nord di Roma) grazie alla visione della giovane Direttrice del carcere Chiara Pellegrini e il permesso del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sei prigionieri hanno iniziato un progetto sperimentale. Dopo aver imparato ad usare una telecamera, hanno girato per alcuni mesi un documentario sulla loro vita. Pesanti le condanne, dovute a omicidio, rapina a mano armata, traffico di stupefacenti. Sei storie diverse, personalità e nazionalità diverse, diversi stadi della detenzione. C’è tutto l’arco dei sentimenti umani nei racconti di Erminio, Rosario, Thomas, Rachid, Alessandro e Slimane: rabbia, delusione, affetto, amore. Ci sono tutte le difficoltà che una persona incontra nel momento esatto in cui diventa detenuto. C’è il rischio suicidio, c’è l’incubo della recidiva, il ritorno in carcere, lì all’orizzonte, al di là delle sbarre, perché dentro non esistono le condizioni affinché si realizzi a pieno l’articolo 27 della Costituzione, quella “rieducazione” decantata ma nei fatti poco ricercata. Il risultato è Fuori fuoco, un film dove nulla è stato messo in scena, dove la semplice verità e la dimensione più sorprendente. Non è il finale un po’ amaro a “rovinare” un racconto emozionante e prezioso. Anzi, quel finale (no spoiler) è tra gli imprevisti da mettere in conto in uno Stato che non dovrebbe mai dimenticare gli ultimi. Il docufilm è stato presentato alla Camera dei Deputati nel luglio scorso alla presenza del Presidente Roberto Fico.
Proiezione: Giovedì 25 ottobre 2018
(ore 17, Aula Magna, Campus Luigi Einaudi)
Ne discutono con il PR:
Vittorio Sclaverani (Associazione Museo Nazionale del Cinema)
Bruno Mellano (Garante Regionale del Piemonte delle persone private della libertà)
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Pubblichiamo qui le recensioni ricevute
Recensione del docufilm Fuori fuoco
di Barbara Taddei (matricola 884388 – Università degli studi di Torino, facoltà di Giurisprudenza)
“Fuori fuoco”’ potrebbe essere uno di quei docufilm di cui sapere come è stato prodotto è tanto importante quanto il docufilm stesso.
Girato dai detenuti stessi, ossia Erminio Colanero, Rosario Danise, Thomas Fischer, Rachid Benbrik, Alessandro Riccardi, Slimane Tali, racconta della loro quotidianità: una quotidianità narrata dal punto di vista di chi è coinvolto in prima persona, senza lasciare spazio all’interferenza cronachistica. Ogni detenuto ha il proprio regime di pena e quest’ultima è narrata in tutta la sua complessità. Si parla, ulteriormente, del carcere e del suo composito assetto. È importante asserire che questa realizzazione mette in risalto l’autorialità dei detenuti, i quali raccontano senza incrinature le loro emozioni, i loro pensieri ed anche i loro ricordi: c’è chi parla dei rapporti con i figli o con le mogli e chi dei viaggi che affrontano per andare a trovare le rispettive famiglie. Il docufilm fa emergere la personalità di ognuno dei protagonisti-registi e si rimane colpiti dalle parole che ciascuno di essi pronunzia; ognuno di essi è diverso dall’altro, anche nella narrazione di un’esperienza che agli occhi di molti può sembrare comune. In questo racconto c’è individualità: probabilmente è proprio questa la parola attorno alla quale gira il senso di tutto: ognuno ha un proprio modo di vivere la detenzione, con una personalità/mentalità ed in alcuni casi nazionalità diversa dagli altri, non curanti del luogo comune a proposito dell’annientamento delle storie dei prigionieri.
Malgrado le immagini non abbiano un’alta definizione, ciò che conta è quello che esprimono, che rivelano: scene che fanno riflettere, intrinseche di significato seppur registrate con telecamere non definibili professionali. Queste peculiarità sono state confermate dal regista stesso, Oreste Crisostomi (che si è occupato della revisione finale e di scegliere il materiale da mandare in onda), che ha esordito con: ‘’volevo far in modo che i carcerati fossero degli autori, che mettessero in scena ciò che volevano’’ e senza alcuna ombra di dubbio c’è riuscito. Ciò che colpisce, poi, è certamente la riflessione che si è fatta a proposito dell’‘’alfabetizzazione’’ tecnologica dei detenuti, i quali sono ‘’colpevoli’’ del complesso fluire delle immagini, galeotte dello stesso titolo del docufilm.
A mio avviso, il finale ha davvero contribuito a rendere questo film ancora più apprezzabile di quanto non lo fosse già: Slimane ha scritto fisicamente la conclusione.
È senza ombra di dubbio un docufilm che deve esser visto da tutti e che merita una larga diffusione, per avere una visione realistica in ciò che accade o può accadere tra le mura carcerarie.
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Recensione del docufilm Fuori fuoco
di Alessandro Tassini, Studente di Giurisprudenza (I° anno, numero di matricola 885239 – Università degli Studi di Torino)
“LA LIBERTÀ IN FOTOGRAMMI”
Di sorveglianza si può anche morire.
Tuttavia, in alcuni casi, la spia rossa di una telecamera può trasformarsi in una preziosa alleata, anche per coloro che, da simili apparecchi, sono quotidianamente sorvegliati.
Al netto di tali considerazioni, sarebbe quantomeno problematico comprendere la profondità e l’innegabile originalità di “Fuori Fuoco”, docu-film girato da alcuni detenuti del carcere di massima sicurezza di Terni, sotto la supervisione di Oreste Crisostomi. Nelle intenzioni di quest’ultimo, vi era infatti quella di realizzare una sorta di racconto poetico, in cui la sofferenza dei reclusi fosse ricavabile dalle loro storie personali, senza le retoriche ed indebite enfatizzazioni della dimensione cronachistica. Il risultato è un lungometraggio caratterizzato da una sensibilità più unica che rara, ben lontana da qualsiasi gusto del truculento e che -al contrario- denota un realismo “temperato”, ma di straordinaria efficacia espressiva. In quest’ottica, l’esaltazione delle eterogenee individualità dei detenuti -che è conseguenza dell’atto documentaristico condotto in prima persona dagli stessi- riduce drasticamente la distanza fra il soggetto-regista e lo spettatore. Viene così resa possibile un’interiorizzazione tale che, senza questi accorgimenti caratterizzanti, l’intera pellicola ne uscirebbe depauperata, e lo spettatore con essa. Al contrario, chi guarda vive un’esperienza che si sviluppa -nel contesto narrativo- parallelamente a quella dei detenuti e, ricostruendo la disorganicità delle singole scene, ciascuno si trova innanzi alla monotona linearità della pena detentiva, con la quale i protagonisti del film fanno i conti ogni giorno. Assumere il punto di vista dei reclusi permette, almeno in parte, di saggiare alcune delle percezioni di chi si trova dietro le sbarre, con particolare riguardo alla fisionomia spazio-temporale, di cui l’esperienza carceraria si carica nel suo complesso. Secondo Crisostomi stesso, il carcere è una sorta di «periferia delle anime», le quali entrano ineluttabilmente in contatto tra loro: quindi, sebbene la dimensione del presente e la precarietà siano tratti distintivi dell’esperienza carceraria, l’istituto di pena non è un “non-luogo”, ma un’importante appendice dello Stato, che troppo spesso quest’ultimo trascura. L’annoso problema delle cosiddette prospettive di reinserimento sociale sembra così latitare nel limbo delle vite apparenti, quelle di coloro che non scorgono spiragli utili a riscattare la propria persona, una volta che avranno estinto la propria pena. In questo senso, il regime di semilibertà di cui si avvalgono molti dei protagonisti del film, può essere un punto di partenza per colmare le lacune del sistema in cui si imbattono gli ex-detenuti, nel momento in cui -tornati liberi- tentano di reintegrarsi nella società civile. Tuttavia, come riporta l’Osservatorio Antigone, nel 2018 la Regione Umbria (competente anche per il carcere di Terni) non ha sbloccato i fondi destinati alla formazione professionale dei detenuti, una criticità a cui si aggiungono la diffusa riluttanza dei datori di lavoro ad assumere persone dal trascorso in carcere, nonché la proibitiva situazione occupazionale italiana. Le insicurezze e le incertezze dei protagonisti di “Fuori Fuoco” si percepiscono in modo più o meno implicito e, del resto, sono le medesime della stragrande maggioranza della popolazione carceraria; per l’incisiva spontaneità e l’assenza di qualsiasi artificio che lo contraddistinguono, “Fuori Fuoco” risponde ad un’estetica propria, un’estetica dell’autentico, completamente disinteressata ai fini dell’edificazione di una quarta parete, forse proprio per via del fatto che i detenuti, di pareti, ne vedono già a sufficienza.