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Socrate, la libertà e il 41 bis: nel carcere di Opera ergastolani e studenti insieme

Per un anno 20 universitari e 20 ergastolani hanno studiato assieme filosofia e teatro. Una volta la settimana i ragazzi della Statale e i detenuti hanno parlato di attesa e speranza

Quaranta persone sedute per terra, in cerchio. Una classe «mista», un esperimento nuovo, mai visto: metà degli studenti erano detenuti condannati all’ergastolo, gli altri ragazzi dell’università Statale. Una volta a settimana, per un anno, dentro al carcere di Opera si sono svolte lezioni di filosofia e teatro. Temi di discussione: l’attesa, la speranza, la libertà. «È la prima volta in assoluto che un’esperienza simile viene autorizzata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E questo è stato per noi fonte di grande soddisfazione e allo stesso tempo grande responsabilità», riflette Stefano Simonetta, docente di via Festa del Perdono. Per tutta la durata del laboratorio ha affiancato l’attrice e autrice Elisabetta Vergani: utilizzando testi e drammaturgie, pian piano e discretamente, le due guide hanno fatto emergere le storie personali e le hanno intrecciate insieme, in un unico racconto che alla fine è risultato esemplare, in qualche modo vicino a tutti. «Siamo andati in direzione ostinata e contraria, come cantava Fabrizio De André. Restando umani in ogni attimo», spiega la drammaturga.

Ciascuno, in quel cerchio, si è sentito importante, e forse è questa una delle chiavi dell’inclusione. «Lo psichiatra Eugenio Borgna diceva che “aspettare è guardare. Guardare l’altro e attendere di essere guardati”. Ecco, io spero che quelle persone rinchiuse a scontare pene senza fine si siano sentite davvero guardate. E quindi, capite», continua Elisabetta Vergani.

I ragazzi della Statale sono testimoni di una esperienza che definiscono straordinaria. «Il mio compagno di banco, o di cerchio, mi diceva di aver trovato uno scampolo di libertà solo dopo l’arresto, quando in lui si è sciolta la rabbia. Dentro una cella di isolamento, per la prima volta, è riuscito a guardare alla propria storia con un po’ di distacco e senza annullarsi nel giudizio, chiedendosi semplicemente “Cosa ho fatto di me?”», ricorda Marina Beraha, 22 anni.

Ginevra Conte è emozionata: «Il mio citava Socrate, alle prime lezioni giurava di volare libero con la mente, nonostante le sbarre della cella. Ma alla fine del corso ha ammesso che il suo era solo un auto-convincimento, una suggestione. La libertà si trova nelle relazioni, nella continua scoperta. È per questo che è così importante creare osmosi tra dentro e fuori dal carcere», considera. «Speriamo tutti di essere perdonati per qualcosa, siamo sospesi tra passato e presente, con la voglia di futuro e la paura della responsabilità», dice ancora Giulia Cacopardo. Filo conduttore del laboratorio, brani che spaziavano da Socrate a Emily Dickinson ad Antonia Pozzi, passando per Fedor Dostoevskij e Italo Calvino. «La sensazione di straniamento in quel non-luogo dove per un anno siamo entrati un giorno alla settimana è stata liberatoria per tutti — assicura ancora Stefano Simonetta —. Alla fine tutti abbiamo cambiato il nostro sguardo. Sul tempo e sugli altri».

La speranza è poter ripetere il laboratorio l’anno prossimo, con il placet del direttore del carcere Silvio Di Gregorio e del nuovo rettore della Statale che verrà eletto proprio domani (in lizza, con un testa a testa all’ultimo voto, Giuseppe De Luca e Elio Franzini). Nelle due case di reclusione di Opera e Bollate, infatti, le lezioni per detenuti si tengono, ma questo è stato il primo corso con una classe «mista». Riuscito, riuscitissimo. Anche perché è riuscito ad accorciare le distanze. «Ognuno di noi doveva impegnarsi a compiere un movimento di apertura verso l’altro, a dispetto delle diversità fisiche, anagrafiche, culturali — spiega ancora la studentessa Alice Pennino —. La libertà è empatia e trasformazione. Disponibilità a rischiare tutto, tranne che se stessi».

Hanno imparato nozioni filosofiche e soprattutto un approccio emotivo che tornerà utile. Enrico Frisoni è meditabondo: «Ci spinge avanti sempre un vuoto, un “mancato” cui cerchiamo con incessante ansia e zelo di tornare. Abbiamo in mente quello, ci pensiamo, ma nel frattempo abbiamo scoperto la vita», sono le sue parole. Quelle del detenuto Domenico, rimaste impresse nella testa dello studente Davide Neri, suonano come un appello a continuare con progetti come questo: «È difficile parlare di libertà con il 41 bis sulle spalle. Ma per un anno, una volta alla settimana, quando con voi ragazzi siamo diventati classe, siamo riusciti a aprirci a noi stessi e al mondo. Grazie a voi abbiamo immaginato i nostri figli, che non abbiamo potuto crescere. A capire un po’ dei loro pensieri. Grazie, per averci fatto sentire liberi e soprattutto responsabili».

Fonte: Corriere della Sera

biografi@museodellamemoriacarceraria.it

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