Il museo degli orrori
LA PENA DI MORTE Nel mondo occidentale e in altri Paesi del mondo, la pena carceraria coesiste con altri tipi di pena, retaggio di epoche passate, ma drammaticamente ancora presenti nell’umanità del Ventunesimo secolo. In particolare, la
LA PENA DI MORTE
Nel mondo occidentale e in altri Paesi del mondo, la pena carceraria coesiste con altri tipi di pena, retaggio di epoche passate, ma drammaticamente ancora presenti nell’umanità del Ventunesimo secolo.
In particolare, la pena di morte, le pene corporali e la tortura sono ancora praticate in molte parti del globo, anche in Paesi che si dichiarano civilizzati e si proclamano difensori dei diritti umani.
In questa cartina, a cura di Amnesty International, sono indicate le nazioni i cui sistemi penali contengono ancora la pena capitale.
Nel corso del 2012, ultimo dato disponibile, almeno 682 persone (esclusa la Cina) sono state messe a morte in 21 Paesi e sono state emesse almeno 1.722 condanne a morte in 58 Paesi.
Questi dati riguardano solo i casi dei quali Amnesty International è a conoscenza: il numero reale è certamente superiore.
Nel 2012, le nazioni con il più alto numero di esecuzioni sono state Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita e Stati Uniti. È da sottolineare che l’Europa è l’unico continente in cui la pena capitale è stata totalmente abolita. I metodi di esecuzione più utilizzati sono l’impiccagione, la fucilazione e l’iniezione letale (che viene richiamata in questa sezione del museo con la ricostruzione del lettino dove viene legato il condannato).
LE PENE CORPORALI
In quest’altra mappa di Amnesty International vediamo i 32 Paesi che prevedono l’uso di pene corporali (per lo più fustigazioni di vario tipo, ma anche lapidazioni, gogna, lavori forzati etc.) in seguito a sentenze comminate da tribunali dello Stato. Si tratta in particolare di: Afghanistan, Antigua, Arabia Saudita, Bahamas, Bardados, Botswana, Brunei, Emirati Arabi, Ecuador, Grenada, Guyana, Indonesia, Iran, Lesotho, Malaysia, Maldive, Nigeria, Pakistan, Qatar, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Sierra Leone, Singapore, Somalia, Sudan, Swaziland, Tanzania, Tonga, Trinidad e Tobago, Tuvalu, Yemen, Zimbabwe. In molto altri Paesi, le pene corporali sono presenti in via informale, in quanto vengono stabilite ed applicate con modalità extra-giudiziarie (tribunali popolari, di famiglia, di villaggio etc.).
I SUICIDI IN CARCERE
La pena capitale si manifesta in carcere anche in un modo più subdolo e apparentemente in cruento: il suicidio. Come noto, la percentuale di suicidi in carcere (sia dei reclusi che degli operatori penitenziari) è fortemente superiore a quella delle persone libere. In questa sezione del museo rievochiamo questo tragico fenomeno attraverso la rappresentazione della modalità più diffusa di suicidio in carcere: l’impiccagione (nel gergo carcerario viene chiamata “far rotolare lo sgabello”). Si tratta di un fenomeno così tristemente ordinario che i vignettisti hanno esercitato su di esso il loro graffiante sarcasmo e il cinema carcerario ne ha fatto uno schema narrativo ricorrente. In un celebre prison movies, Le ali della libertà, l’anziano detenuto bibliotecario Brooks Hatlen (James Whitmore) si suicida dopo la scarcerazione perché non riesce più a riabituarsi alla vita da libero. L’istinto suicida, infatti, può colpire anche quando il condannato è stato, come dicono i sociologi della vita penitenziaria, “prigionizzato” e non può più vivere senza il mondo della vita reclusa.
Nel ciclo di opere dedicate agli orrori perpetrati dai soldati statunitensi ai danni dei detenuti del carcere di Abu Ghraib a Bagdad, l’artista colombiano Fernando Botero abbandona i suoi personaggi dolci e popolari e si concentra su temi dolorosi. Traduce nel linguaggio dell’arte la violenza, la degenerazione, la brutalità che le istantanee dal carcere portavano in sé. Grandi corpi – da sempre sovrappeso – contorti dal dolore, feriti, sodomizzati, umiliati in tutti i modi. La pesantezza dell’atto di tortura è messa in scena attraverso il colore, la forma, lo spazio.
R. Masci, La tortura oggi nel mondo, Fondazione L. Basso, 2005
LA TORTURA
La nozione di tortura è stata ampliata dalla Corte Europea dei Diritti Umani sino a considerare tortura e trattamento inumano e degradante (art. 3 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 1950) anche le condizioni di sovraffollamento carcerario prolungate nel corso del tempo. In tale prospettiva, l’Italia è stata condannata più volte dalla Corte soprattutto per l’insufficienza dello spazio minimo vitale di cui ogni recluso dovrebbe godere (circa 3 metri cubi) e per altri aspetti della vita detentiva (ore trascorse in cella durante la giornata, accessibilità delle attività lavorative e trattamentali dell’istituto etc.).
La nozione di tortura è alquanto complessa e confina con altri fenomeni come i trattamenti disumani e degradanti banditi da molti trattati internazionali.
Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo – Art. 3: “Proibizione della tortura”
Nessuno può essere sottoposto a tortura nè a pene o trattamenti inumani o degradanti
Nei secoli passati essa rappresentava il sistema principale per estorcere la confessione dell’imputato, come vediamo in questa sezione con la ricostruzione di una sedia inquisitoria, ma in molti Paesi del mondo la tortura è tuttora utilizzata sia sotto forma di punizione preventiva per la commissione di reati, sia come mezzo per estorcere informazioni nella fase delle indagini di polizia. Negli ultimi anni le pratiche di tortura hanno conosciuto una nuova diffusione anche nel mondo occidentale. In particolare, si è assistito alla loro rilegittimazione come strumento per impedire attentati terroristici (si pensi alle pratiche di interrogatorio chiamate waterboarding), sia come strumento di annientamento e di umiliazione per prigionieri considerati irriducibili (si pensi allo scandalo del carcere iracheno di Abu Ghraib nel 2004).