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L’identificazione del reo

La seconda metà dell’Ottocento è caratterizzata da un acceso dibattito sulla necessità di adottare un metodo di riconoscimento per prevenire le false generalità

Le macchine fotografiche chiamate Gemelle Ellero (1908)
Ecco i diversi aspetti che un vagabondo dell’epoca era riuscito ad assumere per sottrarsi alla identificazione da parte delle forze dell’ordine. MUSEO DI ANTROPOLOGIA CRIMINALE CESARE LOMBROSO TORINO

Ecco i diversi aspetti che un vagabondo dell’epoca era riuscito ad assumere per sottrarsi alla identificazione da parte delle forze dell’ordine. MUSEO DI ANTROPOLOGIA CRIMINALE CESARE LOMBROSO TORINO

In Europa e non solo, la seconda metà dell’Ottocento è caratterizzata da un acceso dibattito sulla necessità di adottare un metodo di riconoscimento che possa prevenire la piaga delle false generalità dichiarate da chi vuole nascondere i propri trascorsi giudiziari. Un fenomeno in aumento perché proliferano i casi di criminali che si nascondono dietro falsi nomi o che si impossessano di quello di un innocente che ha conservato immacolata la fedina. La verifica dell’identità non si può più ottenere con metodi barbari, come l’incisione sulla pelle di ogni recluso del nome dichiarato al momento dell’arresto o con la brutale pratica della marchiatura a fuoco. Nelle carceri si propone quindi di far passare in rassegna i nuovi reclusi, così che le loro sembianze possano fissarsi nella mente delle guardie. Ma si tratta ancora di un metodo piuttosto impreciso. In tema di identificazione personale un miglioramento lo apporta la fotografia segnaletica.

“La fotografia segnaletica fu prevista di perfetta fronte e perfetto profilo destro. Nel tempo, per ottenere le immagini, oltre alla comune apparecchiatura singola, presso la Scuola di Polizia Scientifica di Roma la fotografia segnaletica si ricavò in un’unica posa grazie all’installazione fissa delle “Gemelle Ellero, sistema fotografico costituito da due apparecchi a fuoco fisso e da una sedia di posa, il tutto montato su una pedana di legno a forma di triangolo rettangolo, in modo che ogni movimento dato da un apparecchio e dato anche dall’altro. L’apertura dei due obiettivi è automatica a pressione d’aria”. (G. Falco, 1922) In pratica si trattò di un’evoluzione: da un impianto singolo all’utilizzo di un vero sistema di fotografia segnaletica.“

Pur potendo ritrarre le fattezze dei criminali, la sola fotografia segnaletica risulta di poco aiuto pratico: le fotografie aumentano di numero e vanno a loro volta identificate. Al francese Alphonse Bertillon ha il merito di introdurre un metodo scientifico per il riconoscimento dei recidivi. Quel che sarà battezzato come il bertillonage è un complesso processo di misurazioni antropometriche, completato da una descrizione dei connotati e dalla fotografia. Un metodo peraltro non privo di inconvenienti: non è facile rilevare le misure e queste possono cambiare nel corso della vita o coincidere con quelle di altri individui. Già da tempo non era sfuggito che i disegni cutanei delle mani sono tratti che restano invariati. Poco noti, William James Herschel e Henry Faulds, sono nomi che fanno parte della storia del metodo identificativo basato sulle impronte digitali. Al pari del più famoso Francis Galton, cugino di Darwin, studioso inglese che tra i tanti interessi coltivava quelli per le scienze antropologiche. Egli riassume i principi chiave delle impronte digitali: immutabilità nel corso della vita e unicità dei caratteri. La strada è spianata per quella che diverrà nota come la Dactiloscopia.

“Non si raccomanderà mai abbastanza all’operatore di compenetrarsi della situazione dolorosa in cui si trova il fotografando, e di essere sempre presente a sé stesso, nello imporsi la massima pazienza ed un tatto opportuno. Una parola d’incoraggiamento, una frase che possa giungere gradita al cuore del pregiudicato, perché anche il pregiudicato ha un cuore, valgono assai più dei mezzi autoritari, delle forme di rigore, delle inopportune minaccie ecc., che, per prova fatta non si risolvono che in un aumento di asprezze e di irrequietudine. (U. Ellero, 1908)“

info@museodellamemoriacarceraria.it

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