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Prison Photography. La fotografia vista da “dentro”

L’architettura è una griglia di sbarre, il paesaggio un’erbaccia che spacca il cemento del cortile dell’ora d’aria, lo still life una sigaretta poggiata sul bordo del tavolino. Il carcere è un universo. Un universo concentrazionario, ma appunto questo: un

L’architettura è una griglia di sbarre, il paesaggio un’erbaccia che spacca il cemento del cortile dell’ora d’aria, lo still life una sigaretta poggiata sul bordo del tavolino.

Il carcere è un universo. Un universo concentrazionario, ma appunto questo: un universo limitato, non infinito, dove però le cose dell’universo si riflettono, si replicano, in una forma concentrata, che le deforma, le rende “sbagliate” e grottesche, ma non le cancella.

Forse la vera pena di una prigione non è la separazione assoluta dal mondo, ma il supplizio di Tantalo per quel mondo di fuori, irraggiungibile ma visibile dentro la sua replica caricaturale.

Più che un libro è un grosso taccuino grigio quello che Nicolò Degiorgis mi ha messo in mano qualche settimana fa nella sua Bolzano. Non so quante pagine siano, a occhio tre o quattrcento, stampate solo su un lato e incollate sul dorso a rischio di sfogliarsi disastrosamente.

Ma forse non è un rischio, è una metafora, o comunque un destino programmato, questo libro deve andare in pezzi perché non è un libro (anche se esce dalle stanze di una casa editrice coraggiosa e originale, Rorhof, che Nicolò ha inventato dopo averla inaugurata con un suo straordinario lavoro d’esordio, Hidden Islam).

Sulle pareti del Museion, un centro di esposizione e conservazione dell’arte moderna che non dovrebbe sfuggirvi anche se siete andati a Bolzano solo per Ötzi, questo Prison Photography è infatti disassemblato e appeso in griglia a una grande parete del piano terra.

Qualche piano sopra c’è una concept exhibition curata sempre da Degiorgis, Hämatli & Patriae, sui temi dell’esilio e della migrazione, anche quella tutta da vedere, magari cominciando dentro la gigantesca camera obscura in cui tutta la mostra si riflette capovolta. Ma sto divagando eh?

Insomma, sarà ora di dire che Prison Photography è il compendio di una serie di esercizi fotografici assegnati dal 2013 ad oggi da Degiorgis ai detenuti della Casa Circondariale di Bolzano, che si trova a pochi passi dal Museion peraltro. Gli autori non sono riconoscibili e firmano solo con le loro iniziali.

Ora, di fotografie del carcere e sul carcere ne abbiamo viste tante, vero? La prigione è un topos del fotoreportage, un sottogenere della fotografia delle istituzioni totali (manicomi, ospedali, centri di accoglienza per migranti ecc.), ha i suoi stili ricorrenti (una prevalenza di bianco-e-nero con grana evidente),  le sue metafore inevitabili (la mano fra le sbarre – cominciò Henri Cartier-Bresson, quindi…), ha i suoi artifizi retorici che comunicano disorientamento e disagio (inquadrature mosse, confuse, pencolanti).

Degiorgis2Anche di le fotografie dal carcere non siamo digiuni. Il workshop fotografico dietro le sbarre è diventato abbastanza abituale nei progetti di recupero e riabilitazione sociale dei detenuti. Anche qui, con una certa ricorrenza, ma direi con abbondanza di buone intenzioni.

Questo non-libro però ha qualcosa di speciale. Il suo senso logico sembra ribaltato. Non è un modo di parlare delcarcere con la fotografia. Sembra molto di più un modo di parlare della fotografia col carcere. Non so se mi spiego. Provo.

Degiorgis3Il non-libro (probabilmente anche il programma dei workshop) è diviso in nove capitoli.

E quei capitoli sono dedicati ad altrettanti generi classici della fotografia. Architettura,ritratto, still life, fine-art,moda, paesaggio, natura…

Ora, le fotocamere si possono portare dentro il carcere, ma tutto il resto no. E allora, per la scelta dei soggetti, si fa con quel che in carcere già c’è.

Ma c’è in quel modo che dicevoFashion ad esempio è l’abbigliamento dei detenuti, ma anche la foto di pinup appesa al muro della cella.

Degiorgis4Fine-art è la galleria di tatuaggi che i cacerati esibiscono sul museo ambulante delle loro epidermidi. Paesaggio è una fila di tortore posate sul cornicione, o una cartolina di montagne.

I generi fotografici ne escono stravolti, beffardamente caricaturati, eppure, in qualche modo, analizzati, indagati, riscoperti.

La fotografia ragiona su se stessa, messa sotto stress da un ambiente claustrofobico. Il carcere qui diventa paradossalmente la macchina panottica che diceva Foucault: ma in un modo imprevisto e quasi invertito, come specchio deformato della visione e dei suoi stereotipi.

Ma se il carcere deforma la fotografia e ce la spoglia dalla retorica, forse vale anche il viceversa: forse quel che ci stanno raccontando i detenuti-fotografi, in un modo che fa a meno di pietismi e drammatizzazioni, forse addirittura con un certo sarcasmo, è che la fotografia deforma il carcere, e anche il mondo, quando pretende di raccontarlo.

Fonte: Michele Smargiassi, Repubblica.it

biografi@museodellamemoriacarceraria.it

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